40 ANNI DOPO L´HEYSEL: IL CALCIO, LA TRAGEDIA, LA MEMORIA IN UN FILM
- maximminelli
- 5 ore fa
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Nel quarantennale della strage dell'Heysel, rileggiamo "Appuntamento a Liverpool" di Marco Tullio Giordana, un film che mescola sport, storia e coscienza civile.

Quaranta anni sono trascorsi dalla tragica serata del 29 maggio 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles. Una finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool che si trasformò in un incubo: 39 morti, per lo più italiani, e oltre 600 feriti a causa di una carica degli hooligans inglesi e del crollo del tristemente famoso settore Z dello stadio. Un evento che ha segnato per sempre la storia del calcio europeo e la memoria collettiva italiana.
Il calcio come passione, come trauma, come redenzione
Ricordo ancora quella serata surreale trascorsa davanti alla televisione. Da settimane attendevo quella partita. All'epoca simpatizzavo per la Juventus (ero anche arbitro di calcio nelle serie inferiori) ed era viva la delusione di due anni prima, la finale di Atene con il gol di Magath, che aveva cancellato ancora una volta i sogni europei dei bianconeri. In gennaio, a Torino, la squadra di Trapattoni aveva battuto proprio i Reds nella finale di Supercoppa. La finale di Bruxelles, quindi, oltre a essere una rivincita di quel match invernale, sembrava poter rappresentare finalmente l'occasione buona per rompere l'incantesimo.
E invece... Invece arrivarono le immagini caotiche in Eurovisione dal Belgio. La voce di Bruno Pizzul cercava di raccontare cosa stesse succedendo, la partita forse non si sarebbe giocata. Le notizie arrivavano solo dalla diretta RAI: non c'erano internet, i social, fonti alternative di informazione. I minuti passavano, il dramma si concretizzava, poi la decisione: si gioca. Quei 90 minuti, a ripensarci a freddo solo poche ore dopo, furono quanto di più grottesco e inquietante la storia dello sport abbia mai visto.
Le conseguenze di quella terribile serata sono note. La Juventus si portò a casa l'agognata coppa, ma senza troppo onore. Le squadre inglesi furono bandite a tempo indeterminato dalle competizioni europee. La tragedia di Bruxelles fu l'occasione per rivedere a livello europeo le norme di sicurezza negli stadi, anche se ci vollero ancora alcuni anni per arrivare a posti numerati e controlli più accurati che, tuttavia, non hanno impedito altri drammi, dentro e fuori curve e gradinate.
In questa ricorrenza dolorosa, vale la pena tornare a guardare (o scoprire per la prima volta, per chi non l'avesse ancora visto) "Appuntamento a Liverpool", film del 1988 diretto da Marco Tullio Giordana, che fu uno dei primi – e forse ancora oggi uno dei pochi – tentativi di raccontare cinematograficamente l'Heysel. Non tanto come cronaca dei fatti, quanto come riflessione civile e umana sulle conseguenze di una violenza insensata.
Una vendetta impossibile, una memoria necessaria

"Appuntamento a Liverpool" non è un film sportivo nel senso classico del termine: nessuna partita, nessuna epopea atletica. Della serata dell'Heysel vediamo solo pochi fotogrammi, quelli della curva dove avvennero gli incidenti. Eppure è un film sul calcio. Sul suo potere simbolico, sulla sua capacità di muovere masse e passioni, ma anche di trasformarsi – in alcune degenerazioni – in veicolo di distruzione.
Protagonista è Caterina, interpretata da Isabella Ferrari in una delle sue prove più intense. Giovane ragazza di Cremona, graziosa, con una vita tranquilla, un lavoro da commessa e ancora a casa con i genitori, si reca allo stadio Heysel con il padre, tifoso juventino. Sarà costretta a vederlo morire sotto i suoi occhi, schiacciato dalla follia degli hooligans. Tre anni dopo, tormentata dai ricordi e dagli incubi in cui rivede il volto del giovane tifoso inglese che aveva aggredito il padre, il fantasma del 29 maggio 1985 si materializza ancora una volta. Prima con la riscoperta dell'Alfa Romeo Giulietta del padre, lasciata in garage e recuperata da Caterina anche per farlo rivivere un po'. Poi con una convocazione della polizia: un ispettore inglese (John Steiner) ha ancora bisogno di lei per identificare uno degli aggressori. Il confronto con i video e le foto segnaletiche è una tortura per Caterina. La ragazza, però, con uno stratagemma sottrae la fotografia del giovane che lei sa essere stato l'assassino.
Allora decide di recarsi a Liverpool per cercare il colpevole – o almeno uno dei colpevoli – di quella tragedia. Lo scopo non è tanto la giustizia, quanto la vendetta. Ma anche in questo viaggio si scontrerà con le contraddizioni della memoria, dell'identità, della sofferenza.
Nel suo pellegrinaggio laico in terra britannica, Caterina si confronta con una realtà completamente diversa da quella che immaginava: non trova mostri, ma giovani uomini distrutti, disillusi, cresciuti in quartieri duri, segnati da povertà, disoccupazione e assenza di speranza. L'Inghilterra operaia, messa in ginocchio dalle terapie d'urto di Margaret Thatcher, di cui abbiamo visto tante rappresentazioni nei film di Ken Loach.
La vendetta di Caterina comincia a perdere senso, e il dolore, pur rimanendo immenso, si trasforma in interrogativo. È possibile perdonare? È lecito dimenticare? E soprattutto, cosa resta di una tragedia nella vita di chi sopravvive?
Il dilemma è per Caterina un ennesimo supplizio. Non vuole denunciare il giovane tassista (Nigel Court) che ha identificato e che la polizia ha fermato per sottoporlo a un confronto con lei. A questo punto sembra che la sua furia vendicativa si sia esaurita, anche perché a Liverpool l'ha raggiunta la madre (Valeria Ciangottini). Invece si tratta solo di una finzione, l'ennesima: verso gli altri, ma anche verso se stessa.
Lei sembra voler andare fino in fondo. Segue il sospettato, sale sul suo taxi, si fa portare in giro per Liverpool, anche fino al Cavern Club, dove avevano esordito i Beatles, unico angolo positivo di questa città a lei definitivamente ostile: "Piacevano tanto a mio padre", confessa.
Sta per sparare con la pistola che si era procurata nell'underground di Liverpool. L'arma fa cilecca, ma non demorde; si fa spiegare meglio come funziona e la mattina dopo si presenta davanti alla casa del tassista.
Prima la sua immaginazione costruisce la scena dell'esecuzione, ma quando la lucidità arriva a fare i conti con la realtà, ecco che Caterina scopre la pietà, che è profondamente radicata nel suo cuore. E anche l'umanità di questo giovane uomo, disperato ma tenero con la piccola figlia, che prende per mano e accompagna per strada. A quel punto la vendetta non ha più senso. Caterina getta la pistola in un cestino dei rifiuti.
Marco Tullio Giordana, un regista dell'impegno civile
Non sorprende che un film come questo porti la firma di Marco Tullio Giordana, anche se (spoiler) non è uno dei suoi migliori. Autore noto per opere che affrontano grandi temi storici e sociali ("I cento passi", "La meglio gioventù", "Romanzo di una strage"), anche in "Appuntamento a Liverpool" mostra una capacità rara di fondere il privato con il pubblico, l'intimo con il collettivo.
Giordana evita i toni retorici o patetici, ma segue senza sussulti una sceneggiatura solo in parte verosimile e convincente, pur nella bontà delle intenzioni di partenza. Il suo sguardo è comunque sempre empatico, ma rigoroso. Racconta la storia di una donna semplice che si trova a confrontarsi con l'inaccettabile, ma lo fa con una regia sobria, attenta ai silenzi, ai dettagli, ai gesti quotidiani. La Liverpool che Caterina attraversa è grigia, affaticata, eppure mai stereotipata. C'è una ricerca costante di autenticità che rende il film ancora oggi attuale, avendo il merito di porci di fronte con durezza quello che si cela dietro gli "splendori" del tifo calcistico.
Un viaggio nei sentimenti, oltre la cronaca

Il vero cuore pulsante di "Appuntamento a Liverpool" è il viaggio interiore della protagonista. Una giovane donna che deve fare i conti con la perdita, la rabbia, la tentazione della violenza come risposta alla violenza. Il suo percorso non è lineare, né edificante. E proprio in questa complessità sta la forza del film.
Caterina non è un'eroina. È una sopravvissuta, come tante. Ma attraverso il suo sguardo, lo spettatore è costretto a confrontarsi con le zone d'ombra della nostra umanità: la sete di giustizia che rischia di diventare vendetta, il bisogno di dare un volto al male, la difficoltà di elaborare il lutto quando il dolore non è solo privato ma anche collettivo.
Giordana costruisce il racconto come un puzzle emotivo: scene brevi, dialoghi essenziali, incontri che lasciano il segno. Ogni passo di Caterina a Liverpool è un frammento di verità, un'occasione di confronto tra mondi lontani, ma anche tra interpretazioni diverse dello stesso evento. La memoria, ci suggerisce il film, non è mai univoca. È un campo di battaglia.
Un film che resiste al tempo
Rivedere oggi "Appuntamento a Liverpool", a quarant'anni dall'Heysel, è un'esperienza forte. Il tempo non ne ha sbiadito l'urgenza. Anzi: in un'epoca in cui il calcio è sempre più business e meno comunità, in cui le curve sono sorvegliate da telecamere e algoritmi ma non sempre libere dall'odio, il film di Giordana resta una lezione di umanità.

Isabella Ferrari è spesso, ma forse non sempre, convincente nel rendere la tensione interiore di Caterina: rabbia, dolore, disorientamento, anche tanta ingenuità. Al suo fianco, attori britannici non celebri ma molto efficaci, che restituiscono con realismo la vita nei sobborghi di Liverpool alla fine degli anni '80. E la colonna sonora, sobria e malinconica, accompagna senza invadere, anche se forse sono fuori luogo alcune scelte, come il preludio del "Parsifal" di Wagner, per quanto si possa comprendere il paragone tra la ricerca di Caterina e quella dell'eroe cavalleresco del ciclo arturiano.
La fotografia, curata da Roberto Forges Davanzati, gioca su toni spenti, lividi, coerenti con l'atmosfera cupa del film. Non ci sono eroi, non ci sono vincitori. Solo vittime – reali e morali – che cercano un senso, un perché.
L'Heysel oggi: una memoria (ancora) scomoda
Nonostante siano passati quarant'anni, la tragedia dell'Heysel resta, in Italia, una memoria difficile. Diversamente da Superga da noi o da Hillsborough in Inghilterra, non è entrata pienamente nel pantheon delle commemorazioni civili. Forse perché troppo scomoda: vittime e carnefici, passioni e colpe, tutto si confonde. E la vergogna collettiva (anche per l'organizzazione belga della partita, per l'assenza di controlli, per l'indifferenza delle istituzioni) pesa ancora come un macigno. Forse perché nelle faide tribali tra i sostenitori delle squadre di calcio ancora non si vogliono mettere da parte queste assurde rivalità, che fecero quasi "festeggiare" i tifosi anti-juventini in quei drammatici giorni di 40 anni fa.
Non aiuta il fatto che nel nostro Paese il calcio sia spesso vissuto con una visceralità che tende a rimuovere il pensiero critico. Parlare di Heysel significa anche interrogarsi sul senso di certe tifoserie, sull'abuso della simbologia sportiva, sulla responsabilità dei media. Significa riconoscere che il tifo può degenerare, e che il confine tra passione e fanatismo è sottile.
Il film di Giordana, proprio per questo, è fondamentale. Non per dare risposte, ma per non lasciare che il silenzio cali. Per ricordare che il calcio è un gioco, ma anche uno specchio. E che guardarsi dentro, a volte, fa male.

È interessante notare che proprio in Belgio una regista di origine rumena, Teodora Ana Minahi, sta girando in questa primavera 2025 una pellicola dedicata alla tragedia dell'Heysel, che anche in quel paese, evidentemente, ha lasciato tracce profonde nella memoria collettiva. Per ora si sa soltanto che al centro della storia ci sono Marie, la figlia del sindaco di Bruxelles, e un giornalista di origini italiane, che assistono dal vivo al dramma dell'Heysel e si trovano di fronte anche ai destini dei tanti protagonisti involontari di quella catastrofe. Di questa pellicola, che presumibilmente uscirà nell'autunno del prossimo anno, avrò modo di riferire in futuro.
Il film completo "Appuntamento a Liverpool" è visibile su YouTube a questo indirizzo:
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