UN BEL GIOCO, MA TROPPO SENTIMENTALE
- maximminelli
- 29 set
- Tempo di lettura: 8 min
Quando il calcio incontra il buonismo e dimentica il coraggio del vero cinema sociale, oltre che un po´ di comicità

Aspettative e delusioni
Quando ho visto il trailer di The Beautiful Game (2024), diretto da Thea Sharrock e distribuito su Netflix, ho pensato subito a un film che avrebbe riunito il potere del calcio con il racconto sociale più crudo e ironico. Mi aspettavo una commedia agrodolce alla Full Monty, capace di ridere delle miserie quotidiane senza negarle, e invece mi sono trovato davanti a un’opera che sembra voler
accarezzare lo spettatore, senza mai disturbare troppo.

Il risultato è un film buonista, prevedibile e privo di quella comicità liberatoria che avrebbe potuto trasformarlo in qualcosa di memorabile. Non fraintendetemi: il messaggio è nobile, l’intento di dare voce a chi vive ai margini è lodevole. Ma il cinema, per funzionare, ha bisogno anche di rischio, di conflitto, di sorprese. Qui invece tutto fila troppo liscio.
In The Beautiful Game Sharrock, giunta alla quarta regia, ancora una volta lascia senza dubbio risaltare i toni sentimentali ed umani dei personaggi. Ispirato ad una realtà vera, gli annuali Mondiali di Calcio per Senzatetto, disputati dal 2003 in ogni angolo del pianeta, racconta la vicenda fizionale di alcuni homeless inglesi, che, respinti dalla società e con alle spalle difficili storie personali (tossicodipendenza, piccoli crimini o rapporti familiari distrutti) si ritagliano sogni e speranze grazie ad un pallone da calcio e al "bel gioco".
La trama: un riscatto troppo facile

La storia di The Beautiful Game ruota attorno a Mal (Bill Nighy), un anziano allenatore dal cuore grande che guida questa squadra composta da senzatetto e persone ai margini della società, chiamata a rappresentare l´Inghilterra all´edizione della Homeless World Cup, ospitata nei giardini dietro Castel Santangelo a Roma: un evento creato per dare spazio a chi normalmente vive nell’ombra.
All’interno della squadra spicca Vinny (Micheal Ward), ex talento con un passato nel club londinese del West Ham, che diventa il fulcro narrativo del film: separato da compagna e figlia piccola, dorme in auto e lavora saltuariamente nel settore della logistica. Il giovane è riluttante, diffidente, porta con sé sensi di colpa e rapporti familiari spezzati. Attraverso il viaggio della squadra verso Roma, il film racconta la trasformazione di Vinny e, parallelamente, quella dei suoi compagni di squadra.

Ogni personaggio ha la sua breve sottotrama: chi lotta contro le dipendenze (Nathan, Callum Scott Howells), chi cerca un modo per riconnettersi con la famiglia (Cal, Keith Young), chi ha alle spalle un passato criminale (Jason, Sheyi Cole), chi si ritrova come profugo lontano dalla sua terra (il curdo Aldar, Robin Nazari). Tutti trovano nel calcio un’opportunità di redenzione, di sentirsi parte di un gruppo, di recuperare dignità.
Non c´è dubbio che per tutti si tratti di un´esperienza unica, indimenticabile, impensabile fino a poco tempo prima. Passano dal pernottare nei cameroni degli alloggi per senzatetto, al dormire in un vecchio palazzo del Rinascimento, adibito a campus per le squadre: possono sdraiarsi su letti „veri“, in camere doppie. Gioiscono, si sentono finalmente accolti e integrati, anche se per una sola settimana.
Il problema? Tutto viene narrato in modo troppo lineare. Vinny passa dal rifiuto alla redenzione senza vere cadute drammatiche; i conflitti tra i compagni si risolvono con un abbraccio o un discorsetto motivazionale; la vittoria morale è assicurata già dal primo minuto. Non c’è mai il rischio che la storia prenda una piega inaspettata, né che qualcuno resti davvero indietro.
Insomma, la trama funziona come veicolo di buone intenzioni, ma non osa mai sporcare i personaggi con contraddizioni o dilemmi veri. Il calcio è la cornice, il messaggio edificante è il centro, e la realtà resta sullo sfondo, addolcita e semplificata.
Bill Nighy salva (parzialmente) la baracca
Se c’è una ragione per guardare il film, questa è Bill Nighy. L’attore inglese, con la sua ironia sottile e il suo carisma naturale, porta un minimo di profondità al personaggio di Mal. Riesce a evitare che il suo ruolo cada nel cliché del “buon padre adottivo”, sa essere severo e intransigente quando ce n´è bisogno per mantenere la validità del progetto e la coesione del gruppo. Grazie a lui, almeno in parte, si restituisce credibilità a un film che altrimenti rischierebbe di sembrare una lunga pubblicità-progresso.

Nighy, però, non può fare miracoli. Il suo personaggio è scritto in modo troppo schematico: è il saggio, il comprensivo, quello che non perde mai la calma e che trova sempre la parola giusta al momento giusto. Funziona, ma resta confinato in una dimensione rassicurante, incapace di spingersi verso zone più complesse o contraddittorie. Molto commovente il legame emotivo che Mal ha creato tra la luna di miele trascorsa 40 anni prima con la moglie proprio a Roma, e il ritorno nella capitale italiana, dove i ricordi della donna, scomparsa poco tempo prima, si mescolano con la missione che questo vecchio scout del calcio inglese si è dato per i suoi giocatori improvvisati.
Donne e pallone, binomio di successo (parziale)
Sono forse un po´ più originali le figure femminili. A partire dall´energica, ma benevola Gabriella (Valeria Golino), che coordina l´organizzazione dell´evento, per proseguire con Suor Protasia (Susan Wokoma), che, come allenatrice, conduce alla vittoria finale il team che rappresenta il Sud Africa. O l´ostinata Mika (Aoi Okuyami) manager della sconclusionata squadra giapponese, matricola e cenerentola del torneo.

La donna che, però, si staglia più delle altre è Rosita (Cristina Rodio), immigrata clandestina messicana, schierata come centravanti nella rappresentativa statunitense. Le sue motivazioni sono forse le più profonde: un successo personale e della sua squadra potrebbero aprirle la porta della legalizzazione del suo status. In qualche modo raggiunge il suo obiettivo: pur classificata quarta con la sua nazionale, Rosita ottiene un contratto per una squadra universitaria di soccer. Tuttavia anche in questo esito sin troppo positivo, unito ad un mezzo flirt con Jason, rendono non del tutto credibile e anche scontato lo sviluppo del personaggio.
Dove sta la comicità?
Uno dei limiti più evidenti di The Beautiful Game è la totale assenza di comicità autentica. Non che un film debba per forza far ridere, ma qui la leggerezza sarebbe stata fondamentale per bilanciare il peso del messaggio sociale.

Basti pensare a Full Monty o persino a Billy Elliot: entrambe storie di riscatto in contesti difficili, ma percorse da momenti esilaranti, da gag che alleggeriscono e al tempo stesso rendono più vera la sofferenza. La vita, anche nei momenti peggiori, sa essere ironica. Qui invece no: tutto è impostato, serio, prevedibile. La mancanza di humor toglie forza al dramma, perché quando non si ride mai, anche le emozioni più intense rischiano di appiattirsi. Il film rimane incastrato in una dimensione edificante che finisce per renderlo noioso.
Roma da cartolina
La scelta di ambientare parte del film a Roma, durante la Homeless World Cup, poteva essere un’occasione straordinaria per mostrare contrasti: la città eterna con le sue bellezze e, allo stesso tempo, le sue contraddizioni sociali. Invece, quela che vediamo è una Roma da cartolina, tutta sole, piazze e colori vivaci. Con tanto di pretini in abito talare lungo e cappello alla Don Camillo, che, come figurine del fotografo Mario Giacomelli, giocano a pallone su una piazza romana inondata dalla luce estiva. E il sottofondo musicale di tanto in tanto sembra quello di un ristorante per turisti, con l´immancabile ´O sole mio.

Niente degrado, niente periferie, niente complessità. Una scelta che tradisce ancora una volta la volontà del film di non disturbare lo spettatore, di non mettere in scena nulla che possa incrinare la visione positiva. Persino il torneo sembra più una festa scout che un campo in cui si incrociano storie difficili da tutto il mondo.
Come nella realtà, si affrontano in questa edizione fittizia del torneo (l´Italia lo ha ospitato solo una volta, nel 2009, a Milano) numerose squadre: una cinquantina, provenienti da tutti gli angoli del mondo. Siccome il film è stato girato nell´estate del 2021, si vedono ancora affiancate le bandiere di Russia e Ucraina, un segnale su cui bisognerebbe riflettere.
Per ovvie ragioni cinematografiche e narrative l´attenzione si concentra su pochi team, soprattutto sulle quattro finaliste: le già citate Sud Africa e Stati Uniti, l´Inghilterra naturalmente, e i padroni di casa dell´Italia. Che, come nelle migliori tradizioni del calcio „vero“, eliminano in semifinali gli inglesi ai rigori, ma soccombono ai sorprendenti sudafricani nel match decisivo.
Buonismo vs. realismo
Uno dei tratti distintivi del cinema efficace è la capacità di mostrare conflitti veri. In The Beautiful Game, invece, i conflitti ci sono ma vengono risolti troppo in fretta. Una lite? Subito un abbraccio. Un trauma personale? Un paio di battute edificanti e il personaggio torna sorridente. Questo approccio, oltre a rendere tutto poco credibile, toglie spessore ai personaggi. Il pubblico non ha mai il tempo di elaborare davvero la loro sofferenza, perché il film preferisce correre verso la redenzione collettiva.

Il vero problema di The Beautiful Game è proprio il suo buonismo (mi si perdoni il termine, che probabilmente disturberà qualcuno). Ogni scena trasuda la voglia di dire “vedete, il calcio unisce e salva tutti”. Il culmine è la grande festa collettiva dopo la finale. Nessuno (o quasi) è triste, si festeggia tutti insieme, la coppa del mondo passa dalle mani di giocatori e giocatrici di squadre diverse. Messaggio bello, certo, ma banalizzato al punto da diventare quasi fastidioso.
La realtà dei senzatetto, delle dipendenze, delle famiglie spezzate è complessa, dura, spesso senza lieto fine. Il film invece ci dice che basta un torneo, un allenatore comprensivo e qualche compagno di squadra per rimettere tutto a posto. Una semplificazione che non rende giustizia alle storie vere.
Netflix e la logica del prodotto rassicurante
Se confrontiamo The Beautiful Game il divario è evidente con altri film sportivi, in cui lo sport è una metafora potente, ma non viene usato come scorciatoia per la redenzione. In The Beautiful Game, invece, il calcio diventa una bacchetta magica: gioca e tutto si sistema.

Non possiamo ignorare il contesto: The Beautiful Game è un prodotto Netflix, e questo spiega molte scelte. La piattaforma punta spesso su storie che non disturbino troppo, capaci di piacere a un pubblico ampio e internazionale. Un film come questo, con i suoi buoni sentimenti è perfetto per chi vuole passare una serata leggera senza troppi scossoni. Il problema è che così si perde l’occasione di fare vero cinema. Un tema come quello dei senzatetto avrebbe meritato un trattamento più coraggioso, più sporco, meno levigato.
Sicuramente chi ha dato una valutazione estremamente positiva dell´iniziativa è stato Mel Young, presidente e fondatore della the Homeless World Cup Foundation, che ha dichiarato, tra l´altro:
“We are incredibly excited to be the focus of the upcoming film The Beautiful Game. The Homeless World Cup Foundation uses our annual tournament and the power of football as a method of tackling homelessness throughout the world. (…)
We have proved just how powerful football can be when it is applied to a social problem and we will keep striving to do more. We hope that the work we do being told in The Beautiful Game inspires more people to join in and support future Homeless World Cups and together we can all aim to end homelessness forever.”
Il pubblico e la critica

Le reazioni al film sono state variegate: alcuni critici hanno giudicato molto positivamente l´opera di Thea Sharrock, altri lo hanno trovato senz´altro “commovente”, altri, invece, lo hanno definito “superficiale”. Nessuno, però, lo ha segnalato come un’opera destinata a restare. È uno di quei film che guardi, magari ti strappa una lacrimuccia, e dopo qualche giorno hai già dimenticato. E questo è forse il peccato più grande: l’occasione sprecata. Con un tema del genere, con un attore come Bill Nighy, con uno scenario internazionale come la Homeless World Cup, si poteva davvero fare un film memorabile.
Conclusione: una partita vinta a metà

The Beautiful Game è un film che parte da un’idea bellissima, ma che sceglie la strada più facile. Non osa, non rischia, non sorprende. È il classico prodotto che si guarda con piacere ma che non lascia traccia.
Per chi ama il calcio e le storie di riscatto sociale, può essere una visione gradevole. Ma chi cerca un film capace di emozionare davvero, di far ridere e piangere insieme, resterà deluso. Io, almeno, lo sono rimasto.
APPENDICE
L´edizione 2025 della Homeless World Cup di calcio si è svolta a Oslo, mentre l´anno prossimo sarà Città del Messico a dare il benvenuto alle decine di squadre chiamate a sfidare Egitto e Uganda (rispettivamente campioni del mondo tra gli uomini e le donne). Per chi desiderasse più informazioni su questo evento e sulla struttura organizzativa che è alle spalle, si può consultare il sito della Homeless World Cup Foundation. Troverà tante notizie sulla storia della manifestazione, sulle finalità e anche sulle regole con cui si gioca.









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